L’imposta sulle emissioni di diossido di carbonio, ideata negli anni ’90, è tornata all’ordine del giorno come principale strumento di contrasto all’inquinamento e ai cambiamenti climatici. Per la prima volta, il G20 valuta la sua introduzione. Ecco in cosa consiste
La carbon tax – tassa sul carbonio – è un’imposta sull’emissione di diossido di carbonio, principale responsabile dell’inquinamento atmosferico. Introdotta in alcuni Paesi europei negli anni ’90, è stata a lungo discussa, spesso osteggiata, prima di tornare al centro del dibattito politico internazionale. Nel corso del vertice che si è tenuto a Venezia dal 7 all’11 luglio, il G20 si è espresso per la prima volta positivamente sul principio di tassazione delle emissioni di CO2.
In cosa consiste la carbon tax
La carbon tax è una ecotassa: uno strumento di politica fiscale che prevede l’applicazione di una aliquota per ogni tonnellata di inquinamento da anidride carbonica rilasciata dai combustibili fossili. In Italia è stata introdotta per la prima volta con l’art. 8 della legge n. 448 del 23 dicembre 1998, ma non è mai resa effettiva. Altri Paesi europei invece, Scandinavia in testa, la applicano con successo già da diverso tempo. La Svezia, ad esempio, è riuscita a tagliare le emissioni di CO2 del 9% tra il 1990 e il 2006.
La ratio della norma consiste nel far sì che chi provoca un danno ambientale ne sostenga, almeno in parte, il costo. L’inquinamento produce infatti un costo sociale molto elevato dal quale, attualmente, i principali responsabili sono esentati. L’obiettivo della tassa è scoraggiare l’utilizzo di combustibili inquinanti e spingere le aziende verso forme di energie rinnovabili e pratiche sostenibili, in modo da ridurre le emissioni di gas serra che sono all’origine dei cambiamenti climatici.
Il ritorno della carbon tax al G20 di Venezia
Nel corso della Conferenza internazionale sul cambiamento climatico, organizzata dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia a margine del G20 di Venezia, il premio Nobel per l’Economia William Nordhaus ha messo in luce le carenze delle azioni di contrasto al cambiamento climatico intraprese finora, prospettando la necessità di un nuovo patto sul clima che stabilisca l’obbligo di fissare un prezzo del carbonio a livello mondiale. Non facile considerato il panorama attuale, caratterizzato da politiche estremamente variegate in materia, anche all’interno dell’Europa stessa.
Il punto di partenza – secondo la direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva – è “liberare il mondo da ogni forma di sussidi ai combustibili fossili, equivalenti a più di 5 trilioni di dollari all’anno”. In secondo luogo sarà necessario, come suggerito da Nordhaus, stabilire entro il 2030 un prezzo medio globale di 75 dollari per tonnellata di CO2. Oggi il prezzo medio è di 3 dollari la tonnellata e copre solo il 23% delle emissioni complessive.
Il prezzo minimo del carbonio e le diverse posizioni in campo
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, il Fondo monetario europeo propone un percorso di avvicinamento che passi dall’introduzione di un prezzo minimo del carbonio, variabile in base ai contesti di sviluppo locali, ma comunque non inferiore ai 25 dollari per tonnellata di CO2. L’Ue, contestualmente, ha proposto nel pacchetto clima “Fit for 55” l’applicazione di una carbon tax alla frontiera (Carbon border adjustment mechanism, Cbam), in modo da disincentivare la delocalizzazione delle imprese e l’importazione di prodotti dall’estero sottoposti a vincoli climatici molto meno stringenti di quelli già esistenti in Europa. (Qui, infatti, le aziende che inquinano in determinati settori devono già pagare i cosiddetti permessi d’inquinamento, gli Ets). Differente la posizione degli Stati Uniti, con la segretaria al Tesoro Janet Yellen che ha posto l’accento su incentivi alla decarbonizzazione e sussidi, seguendo quindi un principio di natura opposta.
Si tratterà, poi, di gestire le ricadute economiche e sociali legate all’introduzione della carbon tax. In Italia, ad esempio, si registrerebbe un aumento dei prezzi di carbone, elettricità e benzina. Ma il punto è che la crisi climatica costerebbe in ogni caso molto di più. Non solo al Pianeta, ma anche al Pil del Paese.