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Città dal Futuro: il progetto nato in Italia dopo il Covid

La pandemia ha messo in luce i problemi endemici delle aree urbane, che hanno iniziato a chiedere sempre di più, offrendo sempre meno. Un progetto collettivo prova ad immaginare le possibili soluzioni per un patto equo e soddisfacente tra metropoli e cittadini

Uno spazio verde, servizi comodi e vicini, la possibilità di coltivare un ambito di condivisione, pur nel rispetto della sfera privata. Sono solo alcuni dei bisogni emersi in maniera chiara durante e dopo il primo lockdown da parte degli abitanti delle città. Non a caso, chi ha potuto ha scelto di lasciare il territorio urbano o metropolitano in favore di piccoli borghi o della campagna. Secondo un’analisi condotta da Coldwell Banker Italy, rispetto ai primi mesi del 2020, alla fine dell’anno la richiesta di case nel verde è cresciuta del 29% in tutto il Paese. Una situazione che ha spinto Davide Agazzi, Matteo Brambilla e Stefano Daelli, tre professionisti con esperienza come policy maker nella pubblica amministrazione, a occuparsi dello sviluppo urbano da diversi punti di vista. Nasce così il progetto Città dal Futuro.

Aprire un dialogo collettivo

“I problemi delle città non nascono oggi. Abbiamo scelto di ignorarli per rincorrere il mantra della crescita senza limiti”. Questo il punto di partenza dello studio. “Gli stili di vita emergenti stanno costruendo idee alternative di città. Anche se non ce ne rendiamo conto, con i nostri comportamenti stiamo già scegliendo per una o l’altra. Il problema è che nessuna di queste presa di per sé è desiderabile”. Sin dalle sue premesse, Città del Futuro si propone di aprire un dialogo collettivo, più che offrire soluzioni preconfezionate (inesistenti, considerando la complessità del tema). “Il nostro sguardo si orienta su come cambiano le città in base alle scelte comportamentali dei cittadini e delle organizzazioni – spiega Davide Agazzi – Crediamo che sia importante porre l’argomento all’attenzione dei cittadini e delle amministrazioni: ci accomuna la fiducia nell’azione pubblica e dei soggetti economici e sociali”.

La “dinamica del patto”

Cosa non ha funzionato nello sviluppo delle città per come le conosciamo oggi? Secondo gli ideatori del progetto, il motore si è inceppato nella “dinamica del patto” tra città e cittadini: “Un accordo implicito in base al quale la città ha iniziato a chiedere sempre di più, offrendo sempre di meno”. La città chiede di investire gli anni più produttivi della propria vita, mettere a disposizione le proprie competenze, spendere all’interno del territorio urbano buona parte del proprio guadagno, tollerare una bassa qualità ambientale, sopportare ritmi frenetici. In cambio di cosa? In teoria, servizi di qualità, buona posizione sociale ed economica, reti sociali estese: riscontri che da tempo hanno iniziato a vacillare. “Non pensiamo ci sia mai stata un’età dell’oro delle città – chiarisce Matteo Brambilla – ma che fossero presenti sin dal principio condizioni implicite che hanno richiesto sempre più dando sempre di meno. Tra le criticità più evidenti c’è il fatto che le città hanno molte difficolta a tenere insieme sfera individuale e sfera collettiva”.

I cambiamenti in atto

Dopo la pandemia, la città si è trovata a poter promettere di meno, ad un costo più alto. Serve quindi riprogettare gli spazi, i tempi e la vita della città stessa. Sicuramente, uno dei principali cambiamenti riguarda il lavoro: “Non c’è più una connessione univoca tra luogo di lavoro e di residenza”, aggiunge Agazzi. Naturalmente questo passaggio riguarda una fetta di popolazione, che coincide sostanzialmente con chi ha avuto la possibilità di accedere allo smart working. Buona parte di chi abita la città, al contrario, non può svincolarsi da un luogo fisico per svolgere la propria attività. “Qualsiasi strategia di ripartenza deve tenere insieme la possibilità di migliorare la qualità della vita per chi può immaginare scelte diverse e si sta disaffezionando alla città, così come per chi alla città è legato per necessità”.

Quattro modelli di città

Dal momento che non esiste una sola città ideale, gli autori hanno individuato quattro grandi tendenze che identificano quattro modelli di città:

  • acropoli: esclusiva delimitata, stimolante, sofisticata, cosmopolita, dinamica, riservata. Appartiene ad una rete sovranazionale di città gemelle che si scambiano persone, competenze e risorse. Non esiste periferia: la città coincide con il centro;
  • irregolare: informale, frastagliata, permeabile, imprevedibile, decadente, disordinata, ingegnosa. I suoi confini sono evaporati lasciando spazio a forme di auto-organizzazione. Il centro è una vasta area a bassa intensità che si confonde con la periferia;
  • leggera: connessa, smaterializzata, veloce, rarefatta, funzionale, nodale, efficiente, sconfinata. La città è il nodo distributivo di servizi accessibili da ovunque e chiunque a patto che si abbia le risorse per fruirne. Il centro è ristretto all’essenziale, connesso ad una periferia virtualmente infinita, senza confini, perché ibrida tra fisico e digitale;
  • contrada: vicina, attiva, provinciale, cordiale, controllata, decorosa, omologante, conservatrice. Composta da zone ben distinte e così indipendenti tra loro da essere quasi in competizione. Ogni quartiere possiede un’identità e delle peculiarità che lo rendono unico.

Perché il motore torni a funzionare è necessario estendere il benessere al maggior numero di persone possibili rispondendo ai bisogni dei quattro quadranti, limitare il processo di gentrificazione (la trasformazione dei quartiere popolari in zone abitative di pregio) e trovare un nuovo equilibrio tra dimensione individuale e dimensione collettiva. Solo così la città potrà contribuire alla sicurezza e alla piena realizzazione di tutte le persone che la abitano.