Il Protocollo di Kyoto: storia e prospettive, vent’anni dopo
Il Protocollo di Kyoto, adottato l’11 dicembre 1997 e in vigore dal 16 febbraio 2005, ha rappresentato il primo accordo internazionale giuridicamente vincolante per ridurre le emissioni di gas a effetto serra (GHG).
A distanza di vent’anni dalla sua entrata in vigore, il protocollo resta una pietra miliare nella lotta ai cambiamenti climatici, nonostante i tanti limiti che ne hanno compromesso l’efficacia.
Che cos’è il Protocollo di Kyoto e cosa prevede?
Il Protocollo di Kyoto è stato concepito per affrontare l’aumento delle emissioni di gas serra, responsabili del riscaldamento globale. L’obiettivo principale era ridurre del 5% le emissioni globali di GHG rispetto ai livelli del 1990, in un periodo iniziale di attuazione tra il 2008 e il 2012.
Gas serra regolati dal Protocollo
Il protocollo identifica sei principali gas serra da controllare:
- Biossido di carbonio (CO₂)
- Metano (CH₄)
- Protossido di azoto (N₂O)
- Idrofluorocarburi (HFC)
- Perfluorocarburi (PFC)
- Esafluoro di zolfo (SF₆)
Questi gas, generati da attività come la combustione di combustibili fossili e la deforestazione, hanno un forte impatto sull’effetto serra e sul riscaldamento globale.
Cosa ha fatto l’Italia per il Protocollo di Kyoto?
L’Italia, come membro dell’Unione Europea, ha ratificato il Protocollo nel 2002 e si è impegnata a ridurre le emissioni di GHG secondo gli obiettivi concordati a livello comunitario. Gli sforzi si sono concentrati su:
- Promozione delle energie rinnovabili, come solare ed eolico.
- Incentivi per l’efficienza energetica nelle abitazioni e nel settore industriale.
- Partecipazione a progetti di sviluppo sostenibile attraverso il Meccanismo di Sviluppo Pulito (CDM).
Nonostante i progressi, l’Italia ha affrontato difficoltà nel raggiungere gli obiettivi, soprattutto a causa della dipendenza dai combustibili fossili e dell’inefficienza del settore dei trasporti.
Quanti sono i paesi che hanno aderito al Protocollo di Kyoto?
Un totale di 192 Stati, oltre all’Unione Europea, ha firmato e ratificato il Protocollo di Kyoto, dimostrando un impegno globale per la riduzione delle emissioni. Tuttavia, alcune grandi economie non hanno aderito pienamente o si sono ritirate.
Chi non ha aderito al Protocollo di Kyoto?
Gli Stati Uniti, uno dei maggiori emettitori mondiali di GHG, non hanno mai ratificato il protocollo, citando timori per l’impatto economico. Inoltre, nel 2011, il Canada si è formalmente ritirato, sostenendo che gli obiettivi prefissati erano irrealizzabili senza la partecipazione di tutti i grandi inquinatori.
Strumenti di attuazione: i meccanismi flessibili
Per agevolare il raggiungimento degli obiettivi, il Protocollo di Kyoto ha introdotto Meccanismi Flessibili, che consentono ai paesi di collaborare e ridurre le emissioni in modo più efficiente:
- Emission Trading (scambio di emissioni)
- Meccanismo di Sviluppo Pulito (CDM)
- Joint Implementation (JI)
1. Emission Trading: Lo scambio di crediti di emissione
L’Emission Trading, noto anche come mercato del carbonio, consente ai paesi industrializzati di comprare e vendere crediti di emissione.
Questo sistema si basa sul principio che le nazioni che riducono le loro emissioni oltre gli obiettivi stabiliti possono vendere i crediti in eccesso ad altri paesi che non riescono a rispettare i propri limiti.
- Come funziona: Ogni nazione riceve un tetto massimo di emissioni, espresso in Unità di Assegnazione (AAUs). Se un paese emette meno del limite consentito, può vendere il surplus a paesi con emissioni superiori ai propri obiettivi.
- Vantaggi: Questo sistema promuove la cooperazione internazionale e incentiva le nazioni più efficienti a ridurre ulteriormente le proprie emissioni per generare crediti da vendere.
- Esempio: L’Unione Europea ha implementato un sistema di scambio delle emissioni (ETS) come parte delle sue politiche climatiche, diventando il più grande mercato di carbonio al mondo.
2. Clean Development Mechanism (CDM): Il Meccanismo di sviluppo pulito
Il Meccanismo di Sviluppo Pulito è stato progettato per incentivare progetti sostenibili nei paesi in via di sviluppo.
Attraverso il CDM, i paesi industrializzati possono finanziare progetti ecologici in queste nazioni, ottenendo crediti di riduzione delle emissioni.
- Come funziona: I paesi sviluppati investono in progetti come parchi eolici, solare fotovoltaico o programmi di riforestazione nei paesi in via di sviluppo. Questi progetti generano CERs (Certified Emission Reductions), che possono essere utilizzati per compensare le emissioni nazionali.
- Vantaggi: Il CDM contribuisce a ridurre le emissioni globali e stimola lo sviluppo sostenibile nei paesi meno avanzati, migliorando anche l’accesso alle tecnologie verdi.
- Esempio: Un progetto CDM in India ha permesso di costruire una grande centrale fotovoltaica, contribuendo a ridurre le emissioni di CO₂ e a fornire energia pulita a migliaia di abitazioni.
3. Joint Implementation (JI): L’Implementazione congiunta
L’Implementazione Congiunta consente a due paesi sviluppati o in transizione economica di collaborare per ridurre le emissioni attraverso progetti comuni. I paesi coinvolti condividono i benefici delle riduzioni di emissioni sotto forma di ERUs (Emission Reduction Units).
- Come funziona: Un paese sviluppato può realizzare un progetto di riduzione delle emissioni in un altro paese industrializzato o in transizione economica e ricevere crediti per le riduzioni ottenute.
- Vantaggi: La JI promuove la cooperazione tra paesi, trasferendo tecnologie avanzate e migliorando l’efficienza nei processi produttivi.
- Esempio: Un progetto JI in Polonia ha portato alla modernizzazione di una centrale elettrica, riducendo significativamente le emissioni di CO₂ grazie all’installazione di turbine più efficienti.
Perché il Protocollo di Kyoto è fallito?
Nonostante il Protocollo di Kyoto abbia segnato una pietra miliare nella lotta contro il cambiamento climatico, le sue ambizioni non sono state pienamente realizzate.
Diverse ragioni hanno contribuito a limitarne l’efficacia, evidenziando sfide politiche, economiche e strutturali nella governance globale del clima.
1. Mancanza di adesione universale e divergenze tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo
Uno dei principali limiti del Protocollo è stata la mancata adesione di alcuni dei maggiori emettitori globali. Gli Stati Uniti, responsabili di circa il 15% delle emissioni globali di gas serra, non hanno mai ratificato il Protocollo.
La loro obiezione principale era che il trattato non imponeva obblighi vincolanti alle economie emergenti, come Cina e India, pur essendo tra i principali inquinatori mondiali. La Cina, ad esempio, è diventata il maggiore emettitore di CO₂ già negli anni 2000, ma in quanto paese in via di sviluppo non era soggetta agli stessi vincoli delle economie avanzate.
Il Protocollo, infatti, si basava su una distinzione netta tra nazioni sviluppate, obbligate a ridurre le emissioni, e paesi in via di sviluppo, esenti da obblighi vincolanti.
Questa divisione ha generato tensioni politiche, poiché molti paesi industrializzati ritenevano ingiusto sopportare l’intero onere delle riduzioni mentre le economie emergenti aumentavano le loro emissioni.
2. Debolezze nei Meccanismi di Flessibilità
Sebbene i meccanismi flessibili fossero innovativi, la loro applicazione pratica ha mostrato diverse criticità:
- Emission Trading: Alcuni paesi hanno acquistato crediti di emissione senza adottare reali misure di riduzione interna, riducendo l’efficacia complessiva del Protocollo.
- Clean Development Mechanism (CDM): Alcuni progetti sono stati criticati per aver generato crediti senza effettivamente ridurre le emissioni o per aver favorito solo determinati paesi, creando squilibri.
- Joint Implementation (JI): La mancanza di regole uniformi ha portato a discrepanze nell’applicazione dei progetti e alla generazione di crediti di dubbia qualità.
3. Obiettivi limitati e mancanza di ambizione
Gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dal Protocollo erano modesti rispetto alle esigenze climatiche globali.
La riduzione media del 5% rispetto ai livelli del 1990, da raggiungere entro il 2012, si è rivelata insufficiente per invertire le tendenze del riscaldamento globale.
4. Assenza di meccanismi di enforcement
Il Protocollo mancava di sanzioni realmente efficaci per i paesi che non rispettavano gli impegni presi. Questa lacuna ha reso difficile garantire il rispetto degli obiettivi, incoraggiando comportamenti non cooperativi da parte di alcune nazioni.
5. Evoluzione del contesto globale
Dal momento della stesura del Protocollo (1997) alla sua piena applicazione (2008-2012), il panorama geopolitico ed economico era cambiato notevolmente.
La crescita economica delle nazioni emergenti ha alterato gli equilibri delle emissioni globali, mentre la crisi economica del 2008 ha distolto l’attenzione di molti governi dalle priorità climatiche.
6. Il peso delle lobby industriali
In molti paesi, le pressioni delle lobby legate ai combustibili fossili e ad altre industrie ad alta intensità di carbonio hanno rallentato l’adozione di politiche interne coerenti con gli obiettivi del Protocollo. Questo ha contribuito a creare una disconnessione tra gli impegni internazionali e le azioni locali.
Quando è scaduto il Protocollo di Kyoto?
Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto si è concluso nel 2012, ma è stato prorogato attraverso l’Emendamento di Doha fino al 2020.
Tuttavia, molti paesi non hanno ratificato l’emendamento, rendendo la sua efficacia limitata. Dal 2020, l’Accordo di Parigi ha preso il posto centrale nella lotta al cambiamento climatico.
Protocollo di Kyoto e Accordo di Parigi: un confronto
Il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi sono due pilastri della governance climatica globale, ma presentano differenze fondamentali in termini di approccio, ambizione e partecipazione.
Entrambi hanno segnato momenti cruciali nella lotta contro il cambiamento climatico, rappresentando però due fasi diverse dell’evoluzione del diritto internazionale ambientale.
1. Approccio e filosofia
- Protocollo di Kyoto (1997): Si basava su un approccio top-down, con obiettivi di riduzione delle emissioni imposti dall’alto ai paesi industrializzati (Annex I). Questa impostazione rifletteva l’idea che le nazioni sviluppate, essendo storicamente i principali responsabili delle emissioni di gas serra, dovessero sostenere il peso maggiore nella lotta al cambiamento climatico. I paesi in via di sviluppo erano esentati da obblighi vincolanti, secondo il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”.
- Accordo di Parigi (2015): Ha adottato un approccio bottom-up, che consente a ogni paese di definire autonomamente i propri impegni attraverso i Nationally Determined Contributions (NDCs). Questo modello riflette la necessità di un impegno globale e condiviso, riconoscendo che il cambiamento climatico è una sfida universale che richiede la partecipazione attiva di tutte le nazioni.
2. Partecipazione globale
- Il Protocollo di Kyoto coinvolgeva principalmente i paesi sviluppati, con l’esclusione di economie emergenti come Cina e India, che non erano obbligate a ridurre le loro emissioni. Questo ha creato uno squilibrio e ha alimentato tensioni politiche, soprattutto con gli Stati Uniti, che non hanno mai ratificato il trattato.
- L’Accordo di Parigi ha superato questo limite coinvolgendo sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo. Ogni nazione, indipendentemente dal livello di sviluppo economico, è tenuta a presentare e aggiornare regolarmente i propri piani d’azione climatici, garantendo così una partecipazione universale.
3. Ambizione degli obiettivi
- Gli obiettivi del Protocollo di Kyoto erano limitati: ridurre le emissioni globali di gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990, nel periodo 2008-2012. Questo livello di ambizione si è rivelato insufficiente per contrastare efficacemente il riscaldamento globale.
- L’Accordo di Parigi è molto più ambizioso. Mira a mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, con l’obiettivo di limitarlo a 1,5°C. Per raggiungere questo scopo, promuove la decarbonizzazione e la transizione verso economie a basse emissioni di carbonio entro la metà del secolo.
4. Strumenti di attuazione
- Entrambi gli accordi prevedono meccanismi di mercato per favorire la riduzione delle emissioni. Il Protocollo di Kyoto ha introdotto strumenti innovativi come il Meccanismo di Sviluppo Pulito (CDM), il Trading delle Emissioni e l’Implementazione Congiunta (JI). Tuttavia, questi meccanismi hanno mostrato limiti significativi nella loro applicazione.
- L’Accordo di Parigi ha perfezionato e ampliato questi strumenti, introducendo il meccanismo di cooperazione internazionale previsto dall’Articolo 6, che consente ai paesi di collaborare per raggiungere i loro obiettivi climatici attraverso progetti di riduzione delle emissioni certificati e trasparenti.
5. Monitoraggio e trasparenza
- Il Protocollo di Kyoto prevedeva un sistema di monitoraggio piuttosto rigoroso, ma limitato ai paesi obbligati a rispettare gli obiettivi di riduzione. Questo escludeva una gran parte delle emissioni globali.
- L’Accordo di Parigi ha introdotto un sistema di trasparenza universale, in cui tutti i paesi devono riferire regolarmente i progressi compiuti nei loro NDCs, utilizzando metodologie comuni e verificabili.
6. Durata e adattabilità
- Il Protocollo di Kyoto aveva un periodo di applicazione limitato (2008-2012, poi esteso al 2020 con l’Emendamento di Doha), che ne ha ridotto l’impatto a lungo termine.
- L’Accordo di Parigi è progettato per essere flessibile e adattabile, con un meccanismo di revisione quinquennale che consente di aumentare gradualmente l’ambizione degli impegni nazionali.
L’attualità del Protocollo di Kyoto a vent’anni dall’entrata in vigore
A vent’anni dalla sua entrata in vigore, il Protocollo di Kyoto rimane un esempio pionieristico di cooperazione internazionale per il clima. Ha posto le basi per il dialogo globale e ha sensibilizzato governi e cittadini sull’urgenza della crisi climatica. Tuttavia, il suo impatto concreto è stato limitato da obiettivi insufficienti e dalla mancanza di partecipazione globale.
Oggi, Kyoto viene ricordato come il primo passo di un percorso che continua con l’Accordo di Parigi e le politiche attuali volte a raggiungere la neutralità climatica entro la metà del secolo. La lezione appresa è chiara: la lotta al cambiamento climatico richiede una partecipazione universale e obiettivi più ambiziosi, sostenuti da azioni concrete.