Skip to content

Cosa è il greenwashing e come riconoscerlo

Il greenwashing è un fenomeno sempre più discusso nel contesto della sostenibilità, indicato come una forma di comunicazione ingannevole adottata da alcune aziende per apparire “green” senza intraprendere reali azioni a favore dell’ambiente. Questo comportamento non solo danneggia i consumatori, ma ostacola anche i progressi verso una vera transizione ecologica.

L’obiettivo di chi cade in questo insieme di pratiche ingannevoli è guadagnare in termini di profitto e di visibilità, a scapito dei consumatori e della vera economia circolare. Con l’entrata in vigore dellaDirettiva UE 2024/825 nel settembre 2026 e i recenti sviluppi sulla controversa Green Claims Directive, il panorama normativo europeo si sta evolvendo per contrastare più efficacemente questo fenomeno. 

Che cos’è il greenwashing?

Che la sostenibilità sia non solo eticamente corretta, ma anche economicamente vantaggiosa in quanto riconosciuta dai consumatori come valore, è ormai chiaro a tutte le aziende. Tuttavia, c’è chi per approfittarne sceglie una scorciatoia, fingendo di essere green, pur non essendolo affatto. Oppure, mettendo in campo qualche piccola azione simbolica per coprire macchie o carenze ben più rilevanti.

Quando parliamo del fenomeno del greenwashing, ci riferiamo esattamente a quest’insieme di pratiche scorrette. Un concetto che potremmo tradurre con un’immagine: una “lavata” di verde sulla facciata di un’impresa che, all’interno, di verde non ha nulla. Un fenomeno di marketing e pubblicità ingannevole che, oltre a danneggiare i consumatori, rischia di rallentare e ostacolare una vera svolta green, limando la credibilità di chi, con serietà, lavora in questa direzione.

Chi lo ha inventato?

Il termine greenwashing combina le parole inglesi green (verde) e whitewashing (insabbiare, imbiancare). Fu coniato nel 1986 dall’ambientalista americano Jay Westerveld per descrivere la pratica di alcune catene alberghiere che invitavano a riutilizzare gli asciugamani per “salvare l’ambiente”, quando in realtà l’obiettivo era ridurre i costi operativi.

Già allora, infatti, la difesa della natura iniziava ad essere vista come uno strumento da utilizzare per mettersi in buona luce. Una tendenza che si è intensificata soprattutto a partire dagli anni ’90, con il diffondersi di una crescente sensibilità per la sostenibilità ambientale e sociale.

Oggi, il greenwashing si riferisce a qualsiasi tentativo di un’azienda di promuovere un’immagine di sostenibilità che non corrisponde alla realtà dei suoi processi produttivi o delle sue politiche.

In che modo le aziende fanno greenwashing? Come riconoscere il fenomeno

Le aziende praticano greenwashing attraverso diverse strategie di marketing e comunicazione, tra cui:

  • Claim vaghi o non verificabili: Frasi generiche come “amico dell’ambiente” o “100% naturale” senza dati o certificazioni a supporto possono essere un campanello d’allarme da monitorare con attenzione.
  • Sovraesposizione di azioni minori: Enfatizzare iniziative marginali, ignorando problemi più significativi.
  • Uso eccessivo di simboli naturali: Colore verde, immagini di foglie, alberi o animali per evocare sostenibilità sono ormai utilizzate frequentemente da aziende ed enti pubblici. Quando però a questo messaggio visivo non si applicano principi produttivi e filosofia green, si ha un caso di greenwashing.
  • Omissione di dati critici: Pubblicizzare risultati positivi senza menzionare gli impatti negativi è un altro esempio di pratica scorretta. In molti casi, un’omissione può essere tanto dannosa quanto una bugia.

Una società che crede e investe seriamente e concretamente nella sostenibilità aziendale, ha diversi modi per dimostrarlo: l’analisi di materialità, il calcolo della carbon footprint, i criteri ESG, il bilancio di sostenibilità. Occorre, insomma, aprire gli occhi, approfondire e fare un passo in più per smascherare i “falsi green” e supportare chi, invece, è green per scelta.

Cosa sono i 7 peccati capitali del greenwashing

Per comprendere meglio come le aziende praticano il greenwashing, l’organizzazione TerraChoice Environmental Marketing ha identificato sette pratiche comuni, definite come i “peccati capitali del greenwashing”. Questi comportamenti ingannevoli possono aiutare a riconoscere i segnali di un’azienda che tenta di sembrare più sostenibile di quanto realmente sia.

1. Cattiva certificazione

Alcune aziende utilizzano etichette o certificazioni che non sono riconosciute ufficialmente o che non seguono standard verificati. Questo crea un’apparenza di credibilità, ma in realtà confonde i consumatori. Ad esempio, un’etichetta che dichiara un prodotto “eco-friendly” senza specificare il criterio di valutazione potrebbe essere fuorviante.

2. Mancanza di prove

Spesso le aziende fanno affermazioni senza fornire dati o riferimenti verificabili. Dichiarazioni come “riduzione del 50% delle emissioni” possono sembrare impressionanti, ma senza un contesto o una fonte ufficiale perdono di significato.

3. Ambiguità

L’uso di termini vaghi e non specifici è uno dei trucchi più comuni. Frasi come “naturale”, “sostenibile” o “biodegradabile” possono essere ingannevoli se non accompagnate da spiegazioni precise. Ad esempio, un prodotto “biodegradabile” potrebbe richiedere decenni per degradarsi in determinate condizioni.

4. Irrilevanza

Alcune aziende promuovono caratteristiche che non hanno un impatto significativo sull’ambiente. Ad esempio, etichettare un prodotto come “senza CFC” (clorofluorocarburi), quando i CFC sono già vietati da decenni, è un esempio di greenwashing perché pubblicizza elementi irrilevanti per l’ambiente o iniziative non spontanee.

5. Minimizzazione

Il peccato della minimizzazione consiste nel focalizzarsi su un piccolo aspetto positivo mentre si ignorano problemi ambientali più grandi causati dalle proprie attività. Ad esempio, un’azienda che pubblicizza l’utilizzo di imballaggi riciclati ma continua a utilizzare processi produttivi altamente inquinanti sta attuando delle pratiche di greenwashing.

6. Falsità

La menzogna è il peccato più grave tra tutti: alcune aziende fanno dichiarazioni completamente false. Ad esempio, un prodotto dichiarato “carbon neutral” senza compensazioni verificabili o dichiarazioni di riduzione delle emissioni che non trovano riscontro.

7. Compromesso nascosto

Questo peccato si verifica quando un prodotto presenta una caratteristica sostenibile, ma il beneficio è annullato da altri impatti negativi. Ad esempio, un veicolo elettrico può essere definito “green”, ma la sua produzione può comportare l’estrazione intensiva di materie prime, con effetti devastanti sull’ambiente.

Alcuni esempi di greenwashing

I casi di greenwashing riconosciuti – e sanzionati – sono numerosi. Tra i primi e i più noti, quello che ha riguardato la compagnia petrolifera Chevron, protagonista, a metà anni ’80, di una campagna pubblicitaria che ne metteva in luce le virtù in campo ambientale, quando invece i programmi per i quali cercava di prendersi i meriti altro non erano che azioni imposte dalla legge.

E che, tra l’altro, risultavano immensamente meno costose rispetto a quanto investito dall’azienda in pubblicità. Come se non bastasse, nello stesso periodo la Chevron stava violando le leggi federali che regolano le emissioni atmosferiche e gli scarichi di sostanze inquinanti. È evidente dunque che il rispetto dell’ambiente fosse l’ultimo dei suoi pensieri.

Spostandoci in Italia e in tempi più recenti, nel 2020 Eni è stata sanzionata dall’Antitrust per “la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+, sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose”.

Negli spot si parlava infatti di “componente green” e “componente rinnovabile”, oltre che di “significativa riduzione delle emissioni”, in relazione ad un prodotto, il gasolio, che per sua natura è altamente inquinante e non può in alcun caso essere definito “green”.

La nuova normativa europea: Direttiva 2024/825 e Green Claims Directive

L’Unione Europea ha intensificato la lotta contro il greenwashing con due importanti iniziative normative che stanno ridefinendo il panorama della comunicazione ambientale aziendale.

Direttiva 2024/825: le nuove regole operative dal 2026

La Direttiva UE 2024/825, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 6 marzo 2024, rappresenta il primo strumento normativo specifico per contrastare il greenwashing. La direttiva, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 27 marzo 2026 e diventerà operativa dal 27 settembre 2026, introduce nuove pratiche vietate nell’elenco delle pratiche commerciali sleali.

Le principali novità includono:

  • Divieto di marchi di sostenibilità falsi: È vietato esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione approvato o non è stabilito da autorità pubbliche.
  • Stop alle asserzioni ambientali generiche: Non è permesso fare affermazioni ambientali generiche come “sostenibile”, “eco-friendly”, “verde” o “naturale” senza poter dimostrare l’eccellenza delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione.
  • Limitazioni sulle compensazioni di emissioni: È proibito dichiarare che un prodotto ha un impatto neutro o ridotto sull’ambiente in termini di emissioni di gas serra sulla base di mere compensazioni, senza una reale riduzione delle emissioni.
  • Trasparenza sui prodotti identici: È vietato presentare come identici prodotti commercializzati in Stati membri diversi quando presentano differenze significative nella composizione.

Green Claims Directive: un futuro incerto

La Green Claims Directive, proposta dalla Commissione Europea nel marzo 2023, avrebbe dovuto rappresentare il completamento del quadro normativo anti-greenwashing. Tuttavia, a giugno 2025, la Commissione Europea ha annunciato l’intenzione di ritirare la proposta dopo le pressioni del Partito Popolare Europeo (EPP).

La direttiva prevedeva requisiti ancora più stringenti:

  • Verifica preventiva obbligatoria (ex-ante) di tutti i claim ambientali da parte di organismi indipendenti accreditati
  • Criteri scientifici rigorosi per la dimostrazione delle affermazioni ambientali
  • Controlli più severi sui marchi di sostenibilità privati

Il ritiro della proposta ha generato forti critiche da parte di organizzazioni ambientaliste e consumatori, che denunciano come questa decisione lasci spazio al greenwashing e crei incertezza normativa. Secondo ricerche della Commissione Europea, il 53% dei claim verdi nell’UE fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate, mentre il 40% non ha prove a sostegno.

Impatti sul mercato e prospettive future

L’implementazione della Direttiva 2024/825 avrà impatti significativi sul mercato. Le aziende dovranno:

  • Adeguare le strategie di comunicazione garantendo che tutte le affermazioni ambientali siano supportate da dati verificabili
  • Investire in sistemi di tracciabilità e certificazione per dimostrare le proprie performance ambientali
  • Formare il personale sui nuovi requisiti normativi per evitare sanzioni pesanti

Nonostante l’incertezza sulla Green Claims Directive, esperti legali raccomandano alle aziende di continuare a seguire i principi della proposta ritirata come best practice per ridurre i rischi legali e reputazionali.

Non solo green: la sostenibilità sociale e il CSV (Creating Shared Value)

Lo sviluppo sostenibile è una casa che poggia su tre pilastri:

Per questo, un’azienda che fa greenwashing è anche una realtà che non tutela i diritti dei propri lavoratori o che non vigila affinché i propri fornitori non si comportino rispettando le stesse prerogative ambientali e sociali nella propria attività. Essere sostenibili vuol dire controllare la regolarità della propria catena produttiva, rendendola circolare ma anche trasformandola in “value chain”, ovvero catena di valore.

Sono i principi della teoria economica del Creating Shared Value (CSV), nata circa dieci anni fa, che non solo impongono di essere virtuosi all’interno del proprio ciclo produttivo ma, dove possibile, di cercare di portare valore aggiunto e benefit anche al resto della società e della propria comunità circostante.

Come scrive uno degli ideatori della CSV, Michael Porter: «Sociale e ambiente devono entrare nel core business. L’opinione pubblica oggi vede le imprese come la causa di molti problemi sociali ed economici: bisogna cambiare questa percezione con modelli di business diversi, in cui alla generazione di profitto si affianchino benefici per la comunità e il pianeta. Perciò le imprese ora devono cambiare mentalità, mettere a punto nuovi modelli di business, stabilire nuove prospettive dalle quali studiare il mercato e se stesse».

Come evitare il greenwashing: strategie per la comunicazione sostenibile

Per le aziende che vogliono comunicare la propria sostenibilità in modo autentico e trasparente, esistono diverse strategie che permettono di evitare accuse di greenwashing:

Trasparenza e documentazione

Le aziende devono documentare accuratamente tutte le proprie iniziative di sostenibilità con:

  • Dati quantitativi verificabili sulle performance ambientali
  • Certificazioni riconosciute da organismi terzi indipendenti
  • Obiettivi misurabili e timeline chiare per il raggiungimento dei target
  • Reporting periodico sui progressi attraverso strumenti come il bilancio di sostenibilità

Approccio olistico alla sostenibilità

Invece di concentrarsi su singole iniziative isolate, le aziende dovrebbero adottare un approccio sistemico che consideri:

  • L’intera catena del valore dall’approvvigionamento allo smaltimento
  • L’integrazione dei criteri ESG in tutti i processi decisionali
  • Il coinvolgimento degli stakeholder nella definizione degli obiettivi di sostenibilità
  • La formazione del personale sui temi della sostenibilità

Comunicazione responsabile

La comunicazione deve essere:

  • Specifica e concreta evitando termini generici come “eco-friendly” senza specificazioni
  • Proporzionata all’effettivo impatto delle iniziative implementate
  • Onesta sui limiti e le sfide ancora da affrontare
  • Educativa per aiutare i consumatori a comprendere l’importanza delle scelte sostenibili

Conclusioni

Il greenwashing rappresenta una minaccia seria per la credibilità della transizione ecologica e per la fiducia dei consumatori nelle aziende che si impegnano realmente per la sostenibilità. La nuova normativa europea, pur con le incertezze legate al ritiro della Green Claims Directive, rappresenta un passo importante verso maggiore trasparenza e responsabilità.

Le aziende che vogliono distinguersi nel mercato devono investire concretamente in pratiche sostenibili e comunicarle in modo trasparente e verificabile. Questo richiede non solo compliance normativa, ma anche un cambio di mentalitàche metta la sostenibilità al centro del modello di business.

Per navigare questa transizione complessa, molte aziende possono beneficiare del supporto di consulenti specializzati in sostenibilità aziendale che possano guidarle nell’implementazione di strategie autentiche e nella comunicazione responsabile delle proprie iniziative green.

Il futuro appartiene alle aziende che sapranno coniugare profitto e purpose, creando valore per tutti gli stakeholder e contribuendo concretamente a un’economia più sostenibile e responsabile.